Ieri sera mi sono imbattuta in questo articolo, ri-postato da un'amica su un social. Ovviamente non è una breaking news (io non riesco mai ad arrivare sulle notizie in tempo reale), ma un articolo così colpirebbe e farebbe riflettere anche a distanza di anni
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/29/marina-abramovic-ha-ragione-i-figli-sono-un-freno-alla-carriera/2940895/
Questa Abramovich, che io non conosco (come non conosco un mucchio di attrici, stiliste, cantanti e personaggi pubblici, semplicemente, se non girano pubblicità su creme anti acne adolescenziale o seggiolini auto, io non sono nel loro target), ha dichiarato l'aborto dei suoi tre figli indispensabile alla sua carriera artistica. Non entro nel merito delle scelte di questa signora (non oggi, che il Vangelo di Luca dice di non giudicare) però mi chiedo come si possa sacrificare una cosa così grande come la vita dei propri figli per una cosa così piccola e contingente come una professione, per quanto appassionante.
E non mi piacciono le strumentalizzazioni dell'articolo, questo dipingere sempre l'aborto come una scelta obbligata, un gesto indispensabile alla sopravvivenza, alla felicità individuale, alla propria irrinunciabile realizzazione, e in quanto tale neutro, privo di connotazioni etiche, lasciato all'arbitrio del singolo e persino ai futili motivi, anzi, al limite anche soggettivamente buono, secondo l'imperativo categorico che, se una cosa ti fa star bene, allora è giusta.
Una volta questo si chiamava egoismo: voler andare per la propria strada, senza rinunciare mai a nulla, tempo, energie, opportunità, e senza progetti coraggiosi a lungo termine, senza la gioia e la ricchezza di donare ad altri, di avere uno scopo al di fuori di sè, uno scopo che ci trascenda.
E da madre che lavora mi chiedo: davvero la maternità toglie così tanto?
Forse bisognerebbe chiederlo a Marie Curie, a cui un matrimonio felice e due figlie non impedirono di essere premiata con ben due Nobel, uno per la fisica e uno per la chimica. O a Mary Shelley o ad Elizabeth Browning, che sono state scrittrici e poetesse di talento, e mamme.
In fondo anche Meryl Streep, quattro figli e tre oscar, potrebbe provare che la maternità non sia poi così deleteria per la realizzazione professionale di una donna. E in fondo, noi comuni normali non dobbiamo nemmeno vincere un Oscar o un Nobel, o entrare in un'antologia del liceo. Il più delle volte dobbiamo fare cose molto più semplici.
In questi quindici anni di maternità, ho perso molte ore di sonno, un incalcolabile numero di inaugurazioni ed eventi della Milano da bere, forse promozioni professionali e magari qualche bonus (non certo da capogiro). In compenso ho avuto meravigliosi lavoretti per la festa della mamma, sbaciucchiamenti carichi di muco e saliva, e un senso di appagamento e di felicità che nessun'altra esperienza della vita ha saputo darmi, almeno finora, nei miei primi quarant'anni (e rotti).
Quello a cui ho rinunciato mi è stato restituito più grande, più bello e più emozionante, e i no che ho detto sono stati ben poca cosa, di fronte ai sì.
Non credo avrei potuto vincere un Nobel, anche se non lo sapremo mai (facciamo finta di aver il dubbio), ma la vita mi ha dato molto di più. Mi ha dato la possibilità di essere un mezzo per la felicità di altri, mi ha dato un fine più alto che guardarmi l'ombelico, mi dà la certezza che, se anche di qui all'ultimo giorno della mia vita non dovessi farne più una giusta (cosa abbastanza probabile) la mia vita avrà comunque avuto valore, avrà lasciato qualcosa, avrà prodotto un risultato che mi sopravvive.
Fra quarant'anni nemmeno le pareti del mio ufficio si ricorderanno delle ore (moltissime) che ho passato lì. Ma forse le mie figlie si ricorderanno ancora di me.
domenica 2 ottobre 2016
giovedì 15 settembre 2016
Fertility dài!...
E va bene, lo so, sono in ritardo.
Sull’argomento si sono
già espressi tutti. È che io sono sempre poco aggiornata sull'attualità. Il mio
telegiornale va in onda la mattina al bar, al caffè con le mamme delle classi
delle mie figlie. Qui mi informano sui massimi sistemi, tipo l’ultima visita
ufficiale del presidente degli Stati Uniti, l’ultima dichiarazione del Papa,
l’ultimo scandalo sociale o politico, ma anche questioni di costume (quest’anno
tornano le scarpe a punta e i tacchi a stiletto), di cultura (50 sfumature di
grigio non è lo slogan di uno sciogli-macchia) di alta gastronomia (cucinare il
cavolo verza occultando ai figli la sua identità di verdura si può). Siccome
però il più delle volte sono così in ritardo da varcare il portone della scuola
un secondo prima che ce lo sbarrino davanti, capita che perda parecchie
edizioni del mio TG mamme.
Quindi non ne sapevo nulla del Fertility day. Ho
fatto qualche ricerca e ho scoperto che si tratta di una iniziativa del
Ministero della Salute, che ha creato un sito e una campagna, “per
sensibilizzazione sul tema della fertilità e sul rischio della denatalità”. Questa
è musica per le mie orecchie: per la prima volta dacché sono mamma, i figli sono un argomento interessante
per la società e per le istituzioni, finora sorde ai nostri bisogni di genitori, in omaggio alla massima che dice: “i figli li hai voluti tu, e adesso
sono affari tuoi”. A me pare un bel passo avanti, no? Fatemi sognare, chissà
che prima o poi non si riesca a parlare di orari lavorativi flessibili, di
asili senza liste d’attesa pluriennali, di assegni familiari in euro e non in
centesimi.
E invece è scoppiato un putiferio… In tanti si sono offesi
per una frase: “La bellezza non ha età. La fertilità sì”.
E’ vero, ci piace pensare a noi stesse come eterne ragazzine.
Confesso che, quando da ventottenne incinta della prima figlia mi sono sentita
definire “primipara attempata” ci sono rimasta male, eppure è la verità, un
dato scientifico, mica una offesa personale. Non possiamo posticipare la
nascita dei figli indefinitamente, illudendoci di essere highlander (sì, e
magari pure di incontrare Cristopher Lambert al banco dei salumi). È saggio ricordare
che c’è un tempo per ogni cosa, concetto indigesto per la nostra generazione di
super giovani, peggio del polpettone fatto con gli avanzi del pranzo di
domenica.
I figli si fanno, se si fanno, sempre più tardi, quando
ormai si sono soddisfatti tanti altri desideri ed ambizioni. Prevale uno stile
di vita fondato su quel “concetto egoistico di libertà che vede nella
procreazione un ostacolo” come è scritto nell’Evangelium vitae. Siccome siamo
troppo impegnati a solcare oceani, a fare carriera, a frequentare eventi, il limite
anagrafico della fertilità ci appare un insulto alla nostra libertà, e chi ce
lo ricorda fa scandalo, ci vuole male e
ci sta pure vagamente antipatico.
Certo, con qualche servizio in più, con contratti di lavoro
a misura di mamma che lavora e non di stakanovista iperattivo, con qualche
sgravio fiscale per le famiglie numerose, si potrebbe avere un po’ di
incoraggiamento, ma insomma, non facciamo finta che il cambiamento di
aspettative e di stili di vita non abbia nessun peso nella scelta di non fare
figli, o di rinviarli il più tardi possibile. Perché fare figli è sacrificio, è
rinunciare, è mettere i bisogni di altri davanti non solo ai tuoi sogni e
desideri, ma talvolta persino alle tue necessità di base (tipo: dormire una
notte intera, leggerti un libro, provarsi due o tre vestiti senza saltare fuori
dal camerino in mutande perché il pargolo piange).
Sul web c’è chi protesta che non si può figliare quando il
lavoro scarseggia o è precario. Verità sacrosanta (anche se la generazione dei
miei nonni ha tirato su i figli nel dopoguerra, quando la povertà era un
concetto più letterale che nella attuale società del benessere), ma, pensando a
tutte le coppie senza figli che conosco - non un campione statistico dell’ISTAT,
per carità – tutti potrebbero permettersi una famiglia, magari ridimensionando l’esotismo
delle destinazioni estive o riducendo le dimensioni del guardaroba.
Ha ragione papa Francesco nel dire che l’idolatria delle
nostre comode abitudini ci allontana da cose più importanti, ci lega all’immanenza,
dimenticando che non è tutto qui. Invece di prendercela con chi ci ricorda che
tutto ha un termine. Forse, dovremmo mettere da parte tanti piccoli egoismi
quotidiani, ed investire in qualcosa di più grande, nel creare vite che ci
sopravvivranno, creature che potranno meritarsi la vita eterna, anime
immortali.
Papa Francesco
L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.261, 14/11/2015
giovedì 8 settembre 2016
Facciamo la pace!
E così, giovedi 8 è ricominciata la scuola. E noi, eravamo pronti?
L’inizio
della scuola si porta dietro una grande complessità: bisogna togliere le
ciabatte da mare, e mettere scarpe vere, svegliarsi al mattino presto e persino
completare qualche pratica igienica di base, come lavarsi la faccia e i denti
tutti i giorni, mica solo quando la mamma urla. La scuola ricomincia sempre
così, ci coglie di sorpresa, forse ce ne eravamo dimenticati o forse
semplicemente speravamo che l’estate non finisse mai. Questo inizio di scuola è
la metafora della nostra vita familiare, del nostro non essere mai pronti
davvero, con astucci a cui manca sempre qualche pennarello di colore
fondamentale, come il verde mela o il grigio ferro, i libri malfoderati e i
compiti per le vacanze completati solo grazie al rush finale dell’ultima settimana.
E dire che quest’anno mi ero ripromessa di arrivare al primo giorno di
scuola con figli impeccabili, vestiti bene e senza neanche una patacca,
pettinati col pettine e non col forcone, con una merenda sana nello zaino, e
non i cracker del supermercato. Avremmo voluto varcare il cancello della scuola
tutti calmi e sorridenti perché – per una volta - puntuali, anzi, magari in
anticipo, anche solo di una manciata di minuti. Che emozione sarebbe stata! E
invece, eccoci, come al solito trafelati e con le stringhe delle scarpe
slacciate. In momenti come questo, il mio senso di inadeguatezza che cresce in
maniera esponenziale. Il primo giorno di scuola viene l’8 settembre, data che a
mio marito suggerisce l’Armistizio, a me il compleanno di Maria, la benedetta
fra le donne, la mamma con la M maiuscola.
Maria non soffre il tempo che passa, più di duemila anni e non sentirli,
come dice Ratzinger, lei è un’icona raggiante della bontà divina, insomma,
è lei la vera icona della femminilità, il vero modello trasversale alle
generazioni, altro che Sophia Loren o Claudia Schiffer.
Maria è una mamma, e ci mostra che essere una buona mamma non ha molto a
che fare con l’abilità nel temperare le matite, con la capacità di
debellare le macchie di cioccolato dalle magliette bianche (attività nella
quale, comunque, ho raggiunto un discreto grado di specializzazione), e non
significa preparare pasti nutrizionalmente corretti e caloricamente
bilanciati. Benché non si abbiano molte informazioni sulla vita quotidiana di
Maria, probabilmente nessuna di queste attività aveva molto peso per lei, e non
solo perché ai tempi non esistevano nè il cioccolato nè le matite. Lei è la
donna del presente permanente, come dice il papa emerito, un presente che ci dà
l’esempio, invitandoci a quell’atto di coraggio e di rottura con le regole del mondo che è
accogliere, fare dono di se stessa senza porre condizioni, sena riserve, senza
risparmiarsi, mettendo qualcun altro davanti a sè.
Ci insegna che non dobbiamo sentirci coraggiose perché affrontiamo una
riunione pesante col nostro capo, perché mettiamo insieme una cena col frigo
mezzo vuoto o decidiamo di raggiungere una destinazione nuova senza navigatore,
tutte cose che, in definitiva, non ci mettono davvero alla prova. Il vero coraggio
è l’esserci, l’offrirsi completamente, donare la propria vita,
semplicemente accettando così, a scatola chiusa, che sia fatto di noi quello
che vuole il Signore, che non solo è quello che comanda, ma certamente ha anche
un piano.
E non a caso, Papa Francesco rinforza il messaggio: “La Madonna, a Cana, ha
mostrato tanta concretezza: è una Madre che si prende a cuore i problemi e
interviene, che sa cogliere i momenti difficili e provvedervi con discrezione,
efficacia e determinazione. Non è padrona né protagonista, ma Madre e serva”
In
quanto a concretezza sento di avere ancora parecchio da imparare (chissà che
prima o poi non apprenda l’arte di stirare perfettamente una camicia in meno di
mezz’ora), magari la discrezione non è il mio forte, almeno a giudicare da
certe mie reazioni ad inconvenienti che riguardano i figli, ma sulla la determinazione,
e, anche sul prendersi a cuore le cose, direi che siamo sulla strada giusta. Ed
allora mi rincuoro, patacche, moccio al naso e stringhe slacciate a parte, posso
essere anche io una madre decente, mettendomi a disposizione di questo
meraviglioso progetto di vita che il Capo ha deciso per me. E allora, con la
coincidenza fra l’Armistizio e il compleanno di Maria, è il caso che faccia
pace anche io con la mia coscienza, e tenga a bada il senso di inadeguatezza,
almeno per oggi.
Papa Benedetto definisce Maria "icona obbediente della fede" (XVI udienza del 19 dicembre 2012)
Papa Francesco luglio 2016 Celebrazione Eucaristica in occasione del 1050° anniversario del Battesimo della Polonia.
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