domenica 2 ottobre 2016

Ieri sera mi sono imbattuta in questo articolo, ri-postato da un'amica su un social. Ovviamente non è una breaking news (io non riesco mai ad arrivare sulle notizie in tempo reale), ma un articolo così colpirebbe e farebbe riflettere anche a distanza di anni

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/29/marina-abramovic-ha-ragione-i-figli-sono-un-freno-alla-carriera/2940895/

Questa Abramovich, che io non conosco (come non conosco un mucchio di attrici, stiliste, cantanti e personaggi pubblici, semplicemente, se non girano pubblicità su creme anti acne adolescenziale o seggiolini auto, io non sono nel loro target), ha dichiarato  l'aborto dei suoi tre figli indispensabile alla sua carriera artistica. Non entro nel merito delle scelte di questa signora (non oggi, che il Vangelo di Luca dice di non giudicare) però mi chiedo  come si possa sacrificare una cosa così grande come la vita dei propri figli per una cosa così piccola e contingente come una professione, per quanto appassionante.

E non mi piacciono le strumentalizzazioni dell'articolo, questo dipingere sempre l'aborto come una scelta obbligata, un gesto indispensabile alla sopravvivenza, alla felicità individuale, alla propria irrinunciabile realizzazione, e in quanto tale neutro, privo di connotazioni etiche, lasciato all'arbitrio del singolo e persino ai futili motivi, anzi, al limite anche soggettivamente buono, secondo l'imperativo categorico che, se una cosa ti fa star bene, allora è giusta.


Una volta questo si chiamava egoismo: voler andare per la propria strada, senza rinunciare mai a nulla, tempo, energie, opportunità, e senza progetti coraggiosi a lungo termine, senza la gioia e la ricchezza di donare ad altri, di avere uno scopo al di fuori di sè, uno scopo che ci trascenda.

E da madre che lavora mi chiedo: davvero la maternità toglie così tanto?
Forse bisognerebbe chiederlo a Marie Curie, a cui un matrimonio felice e due figlie non impedirono di essere premiata con ben due Nobel, uno per la fisica e uno per la chimica. O a Mary Shelley o ad Elizabeth Browning, che sono state scrittrici e poetesse di talento, e mamme.

In fondo anche Meryl Streep, quattro figli e tre oscar, potrebbe provare che la maternità non sia poi così deleteria per la realizzazione professionale di una donna. E in fondo, noi comuni normali non dobbiamo nemmeno vincere un Oscar o un Nobel, o entrare in un'antologia del liceo. Il più delle volte dobbiamo fare cose molto più semplici.

In questi quindici anni di maternità, ho perso molte ore di sonno, un incalcolabile numero di inaugurazioni ed eventi della Milano da bere, forse promozioni professionali e magari qualche bonus (non certo da capogiro). In compenso ho avuto meravigliosi lavoretti per la festa della mamma, sbaciucchiamenti carichi di muco e saliva, e un senso di appagamento e di felicità che nessun'altra esperienza della vita ha saputo darmi, almeno finora, nei miei primi quarant'anni (e rotti).

Quello a cui ho rinunciato mi è stato restituito più grande, più bello e più emozionante, e i no che ho detto sono stati ben poca cosa, di fronte ai sì.

Non credo avrei potuto vincere un Nobel, anche se non lo sapremo mai (facciamo finta di aver il dubbio), ma la vita mi ha dato molto di più. Mi ha dato la possibilità di essere un mezzo per la felicità di altri, mi ha dato un fine più alto che guardarmi l'ombelico, mi dà la certezza che, se anche di qui all'ultimo giorno della mia vita non dovessi farne più una giusta (cosa abbastanza probabile) la mia vita avrà comunque avuto valore, avrà lasciato qualcosa, avrà prodotto un risultato che mi sopravvive.

Fra quarant'anni nemmeno le pareti del mio ufficio si ricorderanno delle ore (moltissime) che ho passato lì. Ma forse le mie figlie si ricorderanno ancora di me.

giovedì 15 settembre 2016

Fertility dài!...

E va bene, lo so, sono in ritardo. 
Sull’argomento si sono già espressi tutti. È che io sono sempre poco aggiornata sull'attualità. Il mio telegiornale va in onda la mattina al bar, al caffè con le mamme delle classi delle mie figlie. Qui mi informano sui massimi sistemi, tipo l’ultima visita ufficiale del presidente degli Stati Uniti, l’ultima dichiarazione del Papa, l’ultimo scandalo sociale o politico, ma anche questioni di costume (quest’anno tornano le scarpe a punta e i tacchi a stiletto), di cultura (50 sfumature di grigio non è lo slogan di uno sciogli-macchia) di alta gastronomia (cucinare il cavolo verza occultando ai figli la sua identità di verdura si può). Siccome però il più delle volte sono così in ritardo da varcare il portone della scuola un secondo prima che ce lo sbarrino davanti, capita che perda parecchie edizioni del mio TG mamme. 

Quindi non ne sapevo nulla del Fertility day. Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che si tratta di una iniziativa del Ministero della Salute, che ha creato un sito e una campagna, “per sensibilizzazione sul tema della fertilità e sul rischio della denatalità”. Questa è musica per le mie orecchie: per la prima volta dacché  sono mamma, i figli sono un argomento interessante per la società e per le istituzioni, finora sorde ai nostri bisogni di genitori, in omaggio alla massima che dice: “i figli li hai voluti tu, e adesso sono affari tuoi”. A me pare un bel passo avanti, no? Fatemi sognare, chissà che prima o poi non si riesca a parlare di orari lavorativi flessibili, di asili senza liste d’attesa pluriennali, di assegni familiari in euro e non in centesimi.

E invece è scoppiato un putiferio… In tanti si sono offesi per una frase: “La bellezza non ha età. La fertilità sì”.
E’ vero, ci piace pensare a noi stesse come eterne ragazzine. Confesso che, quando da ventottenne incinta della prima figlia mi sono sentita definire “primipara attempata” ci sono rimasta male, eppure è la verità, un dato scientifico, mica una offesa personale. Non possiamo posticipare la nascita dei figli indefinitamente, illudendoci di essere highlander (sì, e magari pure di incontrare Cristopher Lambert al banco dei salumi). È saggio ricordare che c’è un tempo per ogni cosa, concetto indigesto per la nostra generazione di super giovani, peggio del polpettone fatto con gli avanzi del pranzo di domenica.


I figli si fanno, se si fanno, sempre più tardi, quando ormai si sono soddisfatti tanti altri desideri ed ambizioni. Prevale uno stile di vita fondato su quel “concetto egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo” come è scritto nell’Evangelium vitae. Siccome siamo troppo impegnati a solcare oceani, a fare carriera, a frequentare eventi, il limite anagrafico della fertilità ci appare un insulto alla nostra libertà, e chi ce lo ricorda fa scandalo,  ci vuole male e ci sta pure vagamente antipatico.

Certo, con qualche servizio in più, con contratti di lavoro a misura di mamma che lavora e non di stakanovista iperattivo, con qualche sgravio fiscale per le famiglie numerose, si potrebbe avere un po’ di incoraggiamento, ma insomma, non facciamo finta che il cambiamento di aspettative e di stili di vita non abbia nessun peso nella scelta di non fare figli, o di rinviarli il più tardi possibile. Perché fare figli è sacrificio, è rinunciare, è mettere i bisogni di altri davanti non solo ai tuoi sogni e desideri, ma talvolta persino alle tue necessità di base (tipo: dormire una notte intera, leggerti un libro, provarsi due o tre vestiti senza saltare fuori dal camerino in mutande perché il pargolo piange).

Sul web c’è chi protesta che non si può figliare quando il lavoro scarseggia o è precario. Verità sacrosanta (anche se la generazione dei miei nonni ha tirato su i figli nel dopoguerra, quando la povertà era un concetto più letterale che nella attuale società del benessere), ma, pensando a tutte le coppie senza figli che conosco - non un campione statistico dell’ISTAT, per carità – tutti potrebbero permettersi una famiglia, magari ridimensionando l’esotismo delle destinazioni estive o riducendo le dimensioni del guardaroba.

Ha ragione papa Francesco nel dire che l’idolatria delle nostre comode abitudini ci allontana da cose più importanti, ci lega all’immanenza, dimenticando che non è tutto qui. Invece di prendercela con chi ci ricorda che tutto ha un termine. Forse, dovremmo mettere da parte tanti piccoli egoismi quotidiani, ed investire in qualcosa di più grande, nel creare vite che ci sopravvivranno, creature che potranno meritarsi la vita eterna, anime immortali.


Papa Francesco L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.261, 14/11/2015

giovedì 8 settembre 2016

Facciamo la pace!

E così, giovedi 8 è ricominciata la scuola. E noi, eravamo pronti? 

L’inizio della scuola si porta dietro una grande complessità: bisogna togliere le ciabatte da mare, e mettere scarpe vere, svegliarsi al mattino presto e persino completare qualche pratica igienica di base, come lavarsi la faccia e i denti tutti i giorni, mica solo quando la mamma urla. La scuola ricomincia sempre così, ci coglie di sorpresa, forse ce ne eravamo dimenticati o forse semplicemente speravamo che l’estate non finisse mai. Questo inizio di scuola è la metafora della nostra vita familiare, del nostro non essere mai pronti davvero, con astucci a cui manca sempre qualche pennarello di colore fondamentale, come il verde mela o il grigio ferro, i libri malfoderati e i compiti per le vacanze completati solo grazie al rush finale dell’ultima settimana.


E dire che quest’anno mi ero ripromessa di arrivare al primo giorno di scuola con figli impeccabili, vestiti bene e senza neanche una patacca, pettinati col pettine e non col forcone, con una merenda sana nello zaino, e non i cracker del supermercato. Avremmo voluto varcare il cancello della scuola tutti calmi e sorridenti perché – per una volta - puntuali, anzi, magari in anticipo, anche solo di una manciata di minuti. Che emozione sarebbe stata! E invece, eccoci, come al solito trafelati e con le stringhe delle scarpe slacciate. In momenti come questo, il mio senso di inadeguatezza che cresce in maniera esponenziale. Il primo giorno di scuola viene l’8 settembre, data che a mio marito suggerisce l’Armistizio, a me il compleanno di Maria, la benedetta fra le donne, la mamma con la M maiuscola.

Maria non soffre il tempo che passa, più di duemila anni e non sentirli, come dice Ratzinger, lei è un’icona raggiante della bontà divina, insomma, è lei la vera icona della femminilità, il vero modello trasversale alle generazioni, altro che Sophia Loren o Claudia Schiffer.
Maria è una mamma, e ci mostra che essere una buona mamma non ha molto a che fare con l’abilità nel temperare le matite, con la  capacità di debellare le macchie di cioccolato dalle magliette bianche (attività nella quale, comunque, ho raggiunto un discreto grado di specializzazione), e non significa preparare pasti nutrizionalmente corretti e caloricamente bilanciati. Benché non si abbiano molte informazioni sulla vita quotidiana di Maria, probabilmente nessuna di queste attività aveva molto peso per lei, e non solo perché ai tempi non esistevano nè il cioccolato nè le matite. Lei è la donna del presente permanente, come dice il papa emerito, un presente che ci dà l’esempio, invitandoci a quell’atto di coraggio e di rottura con le regole del mondo che è accogliere, fare dono di se stessa senza porre condizioni, sena riserve, senza risparmiarsi, mettendo qualcun altro davanti a sè.
Ci insegna che non dobbiamo sentirci coraggiose perché affrontiamo una riunione pesante col nostro capo, perché mettiamo insieme una cena col frigo mezzo vuoto o decidiamo di raggiungere una destinazione nuova senza navigatore, tutte cose che, in definitiva, non ci mettono davvero alla prova. Il vero coraggio è l’esserci, l’offrirsi completamente, donare la propria vita, semplicemente accettando così, a scatola chiusa, che sia fatto di noi quello che vuole il Signore, che non solo è quello che comanda, ma certamente ha anche un piano.


E non a caso, Papa Francesco rinforza il messaggio: “La Madonna, a Cana, ha mostrato tanta concretezza: è una Madre che si prende a cuore i problemi e interviene, che sa cogliere i momenti difficili e provvedervi con discrezione, efficacia e determinazione. Non è padrona né protagonista, ma Madre e serva” 

In quanto a concretezza sento di avere ancora parecchio da imparare (chissà che prima o poi non apprenda l’arte di stirare perfettamente una camicia in meno di mezz’ora), magari la discrezione non è il mio forte, almeno a giudicare da certe mie reazioni ad inconvenienti che riguardano i figli, ma sulla la determinazione, e, anche sul prendersi a cuore le cose, direi che siamo sulla strada giusta. Ed allora mi rincuoro, patacche, moccio al naso e stringhe slacciate a parte, posso essere anche io una madre decente, mettendomi a disposizione di questo meraviglioso progetto di vita che il Capo ha deciso per me. E allora, con la coincidenza fra l’Armistizio e il compleanno di Maria, è il caso che faccia pace anche io con la mia coscienza, e tenga a bada il senso di inadeguatezza, almeno per oggi.

Papa Benedetto  definisce Maria "icona  obbediente della fede" (XVI udienza del 19 dicembre 2012)


Papa Francesco  luglio 2016 Celebrazione Eucaristica in occasione del 1050° anniversario del Battesimo della Polonia.